Chelsea Headhunters
Alla scoperta di una delle firm più violente e controverse d'Inghilterra.
Ricordo come fosse ieri quel nuvoloso pomeriggio londinese. Apparentemente uno come gli altri, in quella terra d’Oltremanica dove il grigiore del cielo sembra rispecchiare quello dei suoi abitanti, tutti immersi nelle faccende della vita quotidiana. Lo spazio per la contemplazione, la trascendenza e l’arte, che elevano l’uomo al di sopra delle sue possibilità, sembra proprio non esserci, in una città come Londra. Quel carpere diem di oraziana memoria, nella capitale inglese, s’incarna nel subconscio collettivo della sua gente. Una sensazione, un restringimento dell’orizzonte, che ti si appiccica addosso già dopo una sola pinta.
Da amante dei pub, del loro stile insieme austero e caloroso, casalingo e maestoso, mi ero diretto insieme ad alcuni amici a vedere il Derby della Capitale, un Lazio v Roma deciso da un’incredibile doppietta di Totti (2-2, era il gennaio del 2015). In quel pub, avrei dovuto incontrare anche Josh, un amico londinese al quale avevo venduto alcuni adesivi Ultras, da buon collezionista quale sono. Lui, tifosissimo del Millwall, curiosamente mi disse di simpatizzare Lazio.
Tra una chiacchiera e l’altra, un sorso di Guinness e una patatina unta al punto giusto, noto a pochi passi da noi due energumeni tatuati fino alla testa. Uno dei due, polo bianca Fred Perry e stivaletto Dr. Martens, ha disegnato tra collo e nuca un enorme stemma del Chelsea. Chiedo quindi a Josh se i tifosi Blues siano pericolosi quanto i Bushwakers del Millwall, che lui conosce molto bene, o l’Inter City Firm del West Ham. Lui mi lancia un’occhiata a metà tra lo stupore e il divertimento: «Davvero non conosci gli Headhunters?».
Parafrasando il linguaggio delle card [1] dei gruppi hooligans più celebri del Paese: ancora non li conoscevo, ma li avevo appena incontrati.
Negli occhi stupiti del mio amico Josh c’era un’informazione che avrei scoperto pochi minuti più tardi: il Chelsea ha una delle tifoserie organizzate – se questo termine si può applicare al tifo britannico – più antiche d’Europa. A Londra, insieme agli Spurs e forse solo dopo i Gunners, sono stati i tifosi Blues a portare negli stadi, e subito fuori da questi, uno stile di tifo ben riconoscibile, organizzato, stilisticamente omogeneo.
Questo fin dalla fine degli anni Sessanta, da quel Dopoguerra che anche in Inghilterra, Paese meno devastato di altri dal conflitto mondiale, aveva partorito istanze e movimenti (sotto)culturali di una tale originalità e prepotenza giovanile da influenzare tutta Europa, come un vento inarrestabile. E Londra, la sua capitale, se non creava (vedi il movimento Casuals, sorto a Liverpool), senz’altro amplificava le istanze provenienti dal resto dell’Isola.
In questo contesto, insieme culturale e politico, un ruolo di primo piano ebbero gli stadi di calcio, lo sport più interessato dall’onda rivoluzionaria giovanile di quegli anni.
Per gli english lads di quegli anni gli stadi di calcio svolgevano lo stesso ruolo dei bagni termali per i romani, o gli anfiteatri per gli antichi greci: luoghi d’aggregazione sociale, di scambio d’idee, di fermentazione di nuove tendenze. Ma anche di scontro, di lotta politica, di violenza.