🔨 Schweinsteiger: Pep Guardiola ha rovinato il calcio tedesco
✉️ Oggi parliamo di come il guardiolismo ha rovinato l'identità del calcio tedesco, ma anche di Galtier, del re delle combine, dei tornei di agosto, di Vincenzo D'Amico e di molto altro ancora.
«Quando Guardiola è venuto al Bayern Monaco tutti credevano che dovessimo giocare quel tipo di calcio fatto di passaggi corti e tanta tecnica. Così in un certo senso abbiamo perso i nostri valori, sai quelli per cui la maggior parte degli altri Paesi ci guardava come combattenti, capace di correre per tutta la partita. Erano i nostri punti di forza e li abbiamo persi negli ultimi sette, otto anni. Ci siamo dimenticati di questo e siamo stati più concentrati al voler giocare bene la palla l'uno con l'altro. Questo è uno dei motivi per cui il calcio tedesco sta avendo questo declino».
Così ha parlato Bastian Schweinsteiger in un’intervista a talkSPORT. Parole che hanno rinvigorito le solite opposte fazioni del dibattito sportivo: da una parte i guardioliani, dall’altra gli anti-guardioliani. Eppure per una volta, almeno qui, vogliamo andare oltre questa soffocante dicotomia e utilizzare le parole di Schweinsteiger per inserire un elemento in più.
Almeno qui, vogliamo parlare di calcio in termini culturali anziché matematici. E uscire dalla logica dell’aula di tribunale, per cui ognuno porta prove per suffragare e sostenere la propria tesi: i guardioliani dicono che così la Germania, grazie a quel “gioco fatto di passaggi corti” e tecnica, ha aperto il suo ultimo ciclo vincente; gli anti-guardioliani che da lì in poi per la Nazionale è stato un inarrestabile declino. Entrambi hanno ragione, forse, ma ora ci interessa relativamente.
Cosa ci interessa in questo scritto (corsaro) è capire quanto Guardiola abbia influenzato la cultura del calcio tedesco. Perché Pep, per il calcio tedesco, ha segnato una netta cesura in una tradizione forte, poderosa, radicata, che aveva fatto del proprio carattere nazionale nel pallone un marchio di fabbrica e un elemento sempre riconoscibile internamente ed esternamente, come dice Schweinsteiger.
Basta ripercorrere la parabola di Guardiola al Bayern, in cui da alcuni fu accolto come un messia, da altri fu inevitabilmente respinto come un corpo estraneo. Dalla Baviera plasmò la Germania intera e adesso possiamo chiederci che effetti culturali tutto ciò abbia avuto. Noi ad esempio ci siamo innamorati del calcio, al di là del tifo per le nostre reciproche squadre, con le competizioni internazionali: rappresentative che si scontravano ognuna rappresentando il proprio Paese e ciascuna con uno stile di gioco, il quale a sua volta era spesso il riflesso di quel popolo. Il calcio che eccedeva il calcio e si trasformava in fenomeno sociale, culturale, identitario, etico ed estetico insieme.
Non c’era uno stile peggiore e uno migliore, ognuno aveva il proprio e questo segnava la ricchezza (e la bellezza) del pallone. Perché sono le differenze a fare la storia, l’arte, la cultura. Poi inevitabile è arrivata la globalizzazione che ha ammorbidito i confini, diluito i caratteri particolari, superato le logiche nazionali; anche nel calcio, chiaramente. Così negli ultimi anni si è andati verso un’omologazione tattica e tecnica che ha messo un po’ in soffitta i caratteri nazionali, puntando tutto sul campo e poco o nulla sull’extracampo. Guardiola ad esempio è diventato Guardiola perché ha trionfato in e con una tradizione: quella del Barcellona, che era la sua tradizione; sia culturale che tecnico-tattica. Ma poi ha voluto esportare quella tradizione quasi a voler civilizzare gli altri popoli.
E allora oggi tutti riguardiamo alla parentesi tedesca di Guardiola parlando dei risultati, di quanti campionati abbia vinto e quante Champions gli siano sfuggite, ma non è questo il punto. Il punto è quanto abbia cambiato culturalmente il calcio tedesco, e quanta ricchezza particolare si sia persa in un simile mutamento calcistico e antropologico. Perché, planando sopra la logica piccolo-borghese e volgare dei risultati, guardando alla storia del mondo e del calcio, la tesi che Pep abbia portato un impoverimento anziché un arricchimento, una riduzione anziché un allargamento, sta a dir poco in piedi.
Nessuno ne sta mettendo in discussione le abilità come allenatore, ad oggi senza pari. Ripetiamo, non si parla di risultati perché di non soli risultati è fatto il calcio; altrimenti sarebbe solo uno sport e nulla di più. Entrando in una simile ottica allora, para-filosofica, quello di Guardiola è stato per anni un pensiero unico che, proprio come accade nelle nostre società, è stato calato più o meno dall’alto come vangelo, ecumenico per tutti i popoli. E nel periodo storico in cui i popoli non avevano più quella coscienza di sé che mantenevano fino al secolo scorso, era inevitabile che la reazione particolare (nazionale, in questo caso) non fosse più così forte.
Ai nostri occhi però, oltre tutti i ritornelli che ci hanno ripetuto e con cui ci hanno educato, quanto era bello vedere i tedeschi che, come scriveva Massimo Fini, avanzavano in campo inquietanti e spaventosi come fossero SS? E quanto era bello vedere un’Olanda-Germania, segnata dalle tanto dalle inimicizie storiche quanto dallo scontro radicale degli stili di gioco: fantasia contro ordine, talento contro furore, innovazione contro tradizione?
Qui, oggi, non ce ne frega niente dei risultati di Guardiola al Bayern o di quelli che, a cascata, Pep ha portato alla nazionale tedesca. Ci interessa invece capire quanto la Germania abbia perso, a livello culturale e caratteriale, votandosi al guardiolismo nel pallone. Al di là del bene e del male (dei risultati), ragionando a livello di storia del calcio e del mondo. Poi che Pep non sia stato il solo responsabile, anche questo è abbastanza chiaro e pacifico. Ma Guardiola qui diventa una metafora: bene per chi l’ha capito; per gli altri, che tornassero pure davanti alle lavagne tattiche e agli albi d’oro.
Eugenio Gaggiotti, l’artista della truffa
🏴☠️ Questo è il ritratto di un mitomane, un fanfarone, un idealista. Di un personaggio beffardo da commedia nuova, il servo callidus che vive di intrallazzi. Eugenio Gaggiotti, il primo grande truffatore del calcio italiano: di più, un’esteta della truffa. Perché lui, mai diventato ricco, non combinava partite per soldi.
Un articolo di Matteo Zega.
Christophe Galtier nella Francia che brucia (di M. Zega)
Ridateci l’innocenza del calcio d’agosto (di M. Zega)
Rory Delap per non morire di giochismo
🎧 Che musica ascolti?, gli chiedono. Oasis, always, risponde lui. Rory si gira, cattura una mosca e la intrappola in un bicchiere di vetro ancora perfettamente intatto nonostante il botto. A proposito di botti, l'intervistatore - insieme curioso e affascinato da questa figura mitologica che ha di fronte a sé - gli chiede cosa avrebbe fatto se la carriera di calciatore non fosse andava come poi è andata: "Rally driving", risponde lui.
Il fascino aumenta e il mistero si fa fitto. Chi diavolo è Rory Delap? Un demone dell'Oltretomba? Uno scherzo che Dio ci ha fatto per metterci tutti alla prova? Non provatele a casa, queste fottute rimesse laterali. Forse pensate che quel gesto sia studiato?
🗣 "Da piccolo giocavo a calcio e a rugby. Ho fatto anche un po' di lancio col giavellotto e forse è da qui che vengono le mie rimesse laterali". Forse. C'è dell'altro, è evidente. Pensate che Arsene Wenger, dopo aver perso una partita 2-1 su due rimesse laterali di Rory (Stoke City-Arsenal 2-1, 1° novembre 2008, Ognissanti), nel post-partita esclamò infuriato davanti ad una stampa incredula:
"Se potessi cambiare una sola regola nel calcio, sarebbe quella sui falli laterali". Praticamente Wenger propose di batterle con i piedi anziché con le mani. Non ha studiato la storia, Arsene. Non sa, forse, che di Lucifero ce ne è uno solo?
❤️🩹 Delap in quella stessa stagione, che è un po' come la data di nascita e morte dello Stoke City (2008/2009) nell'immaginario collettivo, contribuirà a 7 delle 13 reti dei Potters nella loro prima stagione di Premier League (l'ultima volta in Premiership era stata nel 1985). Quella squadra era allenata da Tony Pulis, un gallese tanto più sorridente quanto più cattivo e duro negli allenamenti. Adorava Rory, e Delap adorava il suo allenatore: lui, irlandese, capiva bene i cuori di tenebra.
Il 6 luglio scorso Delapidator ha compiuto 47 anni.
Il legame tra Garibaldi e il Nottingham Forest
🔴 Il 4 luglio del 1807 nasceva, a Nizza, Giuseppe Garibaldi. Ma cosa c'entra l'Eroe dei due mondi, il Comandante dei mille, la figura simbolo del Risorgimento italiano con una squadra di calcio inglese, lui che probabilmente neppure sapeva cosa fosse il calcio? Per scorpirlo bisogna risalire alla fondazione stessa del Nottingham Forest. Una questione approfondita da Roger Bromley, professore emerito in 'cultural studies' e tifoso Reds, dopo che sentì in prima persona ripetere dai tifosi del club, delusi da prestazioni e risultati: “they’re not fit to wear the Garibaldi”, letteralmente i calciatori “non sono degni di indossare la (maglia) Garibaldi”.
🏟️ Bromley scoprì che i 15 membri fondatori del club, nato nel 1865, dichiararono nello statuto che il colore della divisa ufficiale dovesse essere proprio il “rosso Garibaldi”, un omaggio al generale e al suo esercito volontario di camicie rosse. D'altronde Garibaldi era stato a Londra un anno prima, accolto dal primo ministro Palmerston, dall'ovazione delle folle e anche dal sostegno di varie associazioni massoniche. Un legame profondo e mai dimenticato: dal club, che a Garibaldi ha intitolato la sala conferenze e alcune iniziative, e dai tifosi, che 160 anni dopo continuano a chiamarsi 'Garibaldi Reds' e nel 2016 hanno creato una community online indipendente e auto-finanziata per "rinvigorire il sostegno al NFFC". Il nome della comunity: 'Forza Garibaldi', naturalmente.
👉🏻 Potete trovare l'articolo integrale del nostro Emanuele Iorio, alle radici del football britannico e dell'unione d'Italia, qui.