René Houseman e la libertà assoluta
Un lampo di talento smisurato, la gioia di uno spirito libero.
Prima di tutto la fronte corrugata e un nido di capelli in balia del vento come panni spiegati sui balconi; poi, scendendo, la mascella forte su cui madre natura ha disegnato due labbra carnose, sempre socchiuse, quasi ci fosse una pattuglia di parole che scalpitano sulla punta della lingua senza mai venire. Ha vent’anni, ma ne dimostra quaranta (a quaranta sembrerà l’avanzo di un naufragio); e lo sguardo che evita l’obiettivo allo stesso modo in cui immaginiamo Adamo nascondersi alla vista di Dio la prima volta che si è scoperto nudo.
René Orlando Houseman, argentino purosangue, col nome da divo del cinema francese e l’apellido di un manovale giunto dal Vecchio Continente, è un altro irregolare talento del calcio ad aver solcato il cielo che dà su Rio de la Plata; ma con traiettoria fulminea, quella di un fuoco d’artificio pronto a innescarsi, a esplodere in tutta la sua chiassosa bellezza e ad inabissarsi subito dopo dietro le quinte del mondo.
Nasce nel luglio del ’53 a La Banda, oltre mille chilometri a nord-ovest dalla capitale, dove le estati sono calde e le antiche foreste di quebracho, che un tempo coprivano la regione, sono state via via sostituite da enormi distese agricole, lavorate da contadini che non di rado parlano un’antica lingua precolombiana e contano con le dita fino al quattro, dopodiché
«viene il molto, l’infinito, l’ignoto» (Borges).
Tuttavia a due anni René si trasferisce coi genitori a Buenos Aires, matrigna deliziosa e spietata, con il suo ventre enorme e un particolare favore per chi sa prendersi il seno senza troppi complimenti. Come tanti campesinos dell’epoca, anche suo padre aveva deciso di spostarsi in una metropoli che offre a quelli come lui la possibilità di affrancarsi dalla terra e dalla miseria. Eppure una volta che gli Houseman si trasferiscono a sud la realtà si rivela presto ben diversa da quella vagheggiata nelle capanne dei latifondi e prende la forma del rapporto ingestibile che il capofamiglia ha con l’alcol, la sua sopraggiunta demenza senile e la casa tenuta in piedi da una madre silenziosa e spaccata in due dalla fatica.
Da che ha memoria, la storia del giovane René comincia davvero lì, tra le strade della periferia di Bajo Belgrano, dove cresce come un tanghero con la palla ai piedi, scartando oziosamente le lamiere e i sassi che inframmezzano il suo campo da gioco: un rettangolo tra le baracche degli ultimi arrivati, dove aggirarsi guardinghi, scattosi e con un sapone in tasca perché, non avendo l’acqua in casa, si doveva sempre approfittare dei temporali improvvisi dell’emisfero australe per darsi una lavata. «Era il posto più bello del mondo» confessa in un’intervista:
«Era una libertà assoluta. Giocavo tutto il giorno e la sera tornavo a dormire, senza nemmeno lavarmi. In effetti tutti mi conoscevano come il “Maiale”. Ero sporco, molto sporco, ma non mi importava».
“Cerdo! Cerdo!”, dunque, è il primo nomignolo che Houseman si guadagna tra i compagni di scorribande pomeridiane. Ma è solo uno dei tanti che collezionerà nel corso degli anni.
L’ossessione tutta argentina per i soprannomi, invero, si applica al massimo grado al nostro personaggio. Sembra a volte l’eredità di quell’atteggiamento mentale dei primi coloni, secondo cui le parole non sono altro che la rappresentazione intima delle cose, o meglio, una loro diretta conseguenza. Volendo allora dare credito a chi (come Colombo, come Las Casas) ritiene che i nomina siano consequentia rerum, e che nell’assegnare un nome proprio si debba fare attenzione a scegliere quello giusto, per parlare di Houseman – della sua sostanza – non si può non partire dal florilegio di appellativi che gli sono stati attribuiti nell’arco di una vita.