La maschera dell'Uomo Tigre
Dietro la maschera del celebre lottatore manga si cela un vasto immaginario legato al Giappone del secondo dopoguerra.
La maschera dell’Uomo Tigre è una maschera tragica. Assomiglia agli eroi omerici, semidei afflitti dal dono della mortalità e per questo avidi di vita. All’opposto, Naoto Date, la persona dietro alla tigre, potrebbe essere un hibakusha, i sopravvissuti ai bombardamenti atomici, reietti espulsi dalla società perché fanno paura e perché ricordano con la ferocia delle loro ustioni un orrore che si vorrebbe già dimenticato. Ma gli hibakusha sono anche una metafora del Giappone del Dopoguerra.
Date è orfano e come tale egli rappresenta una generazione di orfani, non soltanto dei propri genitori bensì di un tempo, di un Giappone avvizzito dai bagliori delle bombe di Hiroshima e Nagasaki, insudiciato dalla pioggia nera delle ricadute radioattive, umiliato da una occupazione meno brutale di altre ma pur sempre portatrice di atrocità in una atmosfera di desolazione, depressione e decadenza. Tra le macerie lasciate dai bombardamenti si diffonde il mercato nero, la prostituzione, il consumo e l’abuso di alcool e droga alimentato dalla presenza di truppe straniere.
Il Giappone del dopoguerra è orfano, disperatamente bisognoso di nutrimento per lo spirito prima ancora che per i corpi, orbato di volontà e coraggio, prostrato da sacrifici imposti da una spietata classe dirigente militarista che ha gonfiato la rana di hybris fino a farla scoppiare.
La condizione di orfano di Date lo lega al mito della maschera eroica. Perché tutti gli eroi della letteratura sono orfani e non potranno che generare orfani, essendo, come scrive Natalia Ginzburg, incapaci di diventare loro stessi padri. Eppure Date è stato un ponte tra generazioni, come ha raccontato Alessio Lana, poiché in Italia arriva soltanto nel 1982, quasi vent’anni dopo la sua uscita in Giappone grazie al fumettista Ikki Kajiwara, nom de plume di Asaki Takamori.
Anche lui un triste ritratto di un bambino cresciuto sotto le bombe, sfollato, che giunge a Tokyo con la famiglia e nell’immediato dopoguerra diventa un delinquente di quartiere, un ladruncolo che abbandona la scuola ma trova redenzione nella scrittura e che, per sua fortuna, non visse abbastanza per vedere la figlia, Pai Hsiao-yen, rapita, torturata e assassinata nel 1997 da un gruppo di criminali che si comportarono come l’Arancia Meccanica giapponese.
I personaggi di Kajiwara si muovono in un mondo ben definito e riconoscibile: il Giappone degli anni Sessanta è infatti quello della crescita spericolata, dello sviluppismo asiatico, della Toyota, delle agitazioni sindacali e socialiste sullo sfondo della Guerra Fredda ma in cui permangono gli echi della guerra, della fame, della miseria e del degrado. Come nell’Uomo Tigre, anche in Rocky Joe, l’altra grande opera del fumettista, il protagonista assiste da lontano ad una crescita macroeconomica ma che raramente tocca i bassifondi dove lui vive. Joe Yabuki passa così le sue giornate a sognare di costruire il suo domani.
Naoto Date, al contrario, vuole combattere l’oggi. Gli orfani, non avendo genitori, dunque un legame con il passato, vivono in un eterno presente.
Il wrestling, chiamato puroresu, da una storpiatura dell’originale inglese, diventa negli anni ’50 fenomeno nazionale per un paese così disperatamente in cerca di eroi. Dopo aver perduto il Dio Imperatore, i giapponesi sentivano il bisogno di qualcuno che gli potesse far dimenticare, anche solo per poche ore, una vita di sacrifici, amarezze e poche, o nessuna, soddisfazioni. Momota Mitsuhiro accettò di diventare l’eroe che essi cercavano; questo giapponese nato nel 1924 nella Corea occupata, un curioso memento ad una delle peggiori pagine della storia nipponica e dell’ultima guerra, lasciò il sumo per diventare un wrestler, il primo della sua generazione.
Gli americani che si batterono con lui accettarono di recitare la parte dei “cattivi” (heel, nel gergo del wrestling) ed essere sconfitti, una piccola concessione da parte di chi, fino al 1952, aveva occupato il paese. Momota sconfisse Lou Thesz nell’agosto 1958 e restituì il favore quando si recò in America, recitando a sua volta il ruolo del nemico. Fu soprannominato Rikidōzan e la sua scuola allenò e promosse la prima generazione di grandi lottatori, da Kanji “Antonio” Inoki (che affrontò in un match surreale anche Muhammad Alì nel giugno 1976) a Ooki Kintaro fino a Shohei “Giant” Baba.
Ma fu anche spregiudicato imprenditore, comprò nightclub, hotel, condomini e palestre di boxe, tentò la costruzione di un circolo per il golf sul Lago Sagami. Momota creò una mitologia nuova per il Giappone, fatta di rituali, di maschere, di soprannomi, di faide, dell’attesa dei grandi eventi che mai risolvono ma sempre rimandano. Una promessa continua al combattimento successivo, alla resa dei conti successiva, che ogni volta dovrà essere l’ultima, quella definitiva.
Quello del wrestling negli anni Sessanta e primi Settanta non è però soltanto l’evento che raduna tifosi e famiglie, che trasforma lottatori in celebrità che frequentano attori, politici, red-carpet e l’Intercontinental, ma è un mondo che è immerso nel gioco d’azzardo illegale, nelle bische, gestito da allibratori con i denti macchiati dalla nicotina, frequentato da alcolisti disoccupati o impiegati frustrati, un Giappone parallelo nascosto da paratie di legno nei nightclub della periferia di Tokyo. Quel mondo controllato dalla Yakuza degli Yubitsume che inghiotte soldati americani in licenza, contabili, poliziotti, giornalisti, e di cui anche Momota, l’eroe nazionale, finì vittima, ucciso a coltellate da un membro del Sumiyoshi-ikka nel 1963 dopo un alterco in un bar.
L’Uomo Tigre fu capace di restituire questi moventi e quella atmosfera e la stessa sensazione di finto, ma non di falso, lo rende alla fine più vero di un documentario.
I tratti minimalisti, freddi, squadrati, i colori binari, sembra quasi che l’estetica del socialismo reale abbia permeato la mano di Kajiwara. L’estetica di una fredda utopia restituisce quel senso di anomia, residuo del dopoguerra, che non riesce ad abbandonare l’immaginario collettivo di un Giappone pur nel pieno del suo boom economico. Boom che non ha significato soltanto la cementificazione di Tokyo e la sua verticalizzazione fatta di industrie, televisori, lavastoviglie e consumo, bensì anche la desertificazione morale di una Nazione che scelse l’occidentalizzazione in cambio della propria sopravvivenza.
Eppure l’impatto culturale fu così grande da aver ispirato decine di “maschere”, di lottatori che vollero impersonare l’Uomo Tigre ma finirono per rovinare nel feticcio. Com’era possibile pensare di portare una mitologia nel mondo reale senza risultare ridicoli? La maschera dell’Uomo Tigre possedeva la potenza immaginifica del mito, vivificata però dalla rappresentazione di un Giappone vero, più vero di quello che si vedeva alla televisione o nelle pubblicità della Mitsubishi e della Sony.
Per Naoto Date l’ovazione e la gloria non contano nulla, per qualcuno che cerca soltanto di farsi del male l’unica fede possibile è quella nel sangue e nella fatica per mondarsi dalla sofferenza di un mondo che lo ha privato, prima ancora che della felicità, dell’infanzia. Ogni vittoria della Tigre nasconde il fragore degli applausi con il delicato suono di una chitarra acustica che emette solo note malinconiche. Lo sport nell’Uomo Tigre diventa ossessione, paranoia, il gesto atletico quasi inverosimile, la violenza una dilatazione sbagliata di pervertiti ideali ispirati ai samurai, lo spettacolo scompare e rimane soltanto la battaglia tra Naoto Date e i sicari mandati dalla Tana delle Tigri.
Miseria e degrado di un mondo che all’onore preferì la lavastoviglie, al coraggio una bottiglia di Jack Daniel’s, all’amore uno squallido, fugace contatto con una malnutrita prostituta, alla coesione sociale l’isolamento dei reietti marchiati dal calore delle radiazioni, alla volontà la rassegnazione. Naoto Date rimane la metafora di un Giappone che dopo la guerra si mise in cammino alla ricerca di ciò che aveva perduto, forse per sempre, consapevole, come disse l’Imperatore nella dichiarazione di resa, di dover “sopportare l’insopportabile e soffrire l’insoffribile”.