Quella che state per leggere è un’apologia, non troppo velata, di un movimento calcistico la cui cifra esistenziale è una e insostituibile: la nostalgia. Pertanto, la lettura è consigliata solo a coloro che si riservano di essere scettici verso il futuro.
10 dicembre 2023. Sotto una pioggia battente, resa ancor più piacevole da una temperatura degna dell’inverno belgradese, malinconicamente getto un ultimo sguardo al “Toblerone”, l’edificio in stile brutalista simbolo del quartiere industriale Karaburma. Dopo aver provato la solita invidia per chi guarderà la partita dai piani alti del palazzo, proseguo verso l’Omladinski Stadion per concedermi l’ultima giornata di Prva Liga (seconda divisione del calcio serbo) prima della sosta invernale e del mio ritorno in patria.
L’OFK Beograd, primo in classifica, ospita il FK Dubočica di Leskovac, e con lo stomaco in subbuglio, stretto in una morsa di tristezza per l'imminente partenza mista a un reflusso gastrico causato dalla colazione tutta balcanica a base di Burek e yogurt, mi dirigo verso il botteghino per acquistare il biglietto: ISTOK, 300 dinari. Con circa 2,50 euro in meno nelle tasche, salgo i gradini sconnessi e scivolosi che portano alla tribuna est, scelta obbligata viste le condizioni di inagibilità di quella opposta, che versa in uno stato di abbandono.
Alla mia sinistra, la Plava Unija, il gruppo più caldo della squadra di casa, prende posto in curva e scalda la voce, mentre gli ospiti, dopo qualche resistenza da parte della polizia, presumibilmente per l’ingresso di pezze e striscioni, si sistemano nel lato sud dello stadio, pronti a inzupparsi per novanta minuti. Ingannando l’attesa per il calcio d’inizio, lo sguardo va alle pezze della Plava Unija, immancabili quelle che ricordano l’appartenenza al quartiere con la scritta “Stara Karaburma” (Vecchia Karaburma), ma a rubare il mio cuore sono la scritta in italiano “Vecchi Bastardi” e quella che recita “LSD, Leva Strana Dunava” (Sponda sinistra del Danubio), fiume che sereno scorre alle spalle della tribuna est, e regala una vista impagabile dell’Omladinski dall’alto.
Dopo una mezz’ora di gioco di qualità discutibile, l’OFK sblocca la partita, consolidando il suo già largo margine di vantaggio sulla seconda in classifica. Tuttavia, mentre i minuti scorrono, la mia sensazione di malessere si accentua; in campo succede poco o nulla, e ormai sull’orlo dell’ipotermia, persa la sensibilità delle dita dei piedi, cominciò a chiedermi quanto fosse necessario infliggermi una simile punizione, se questo fosse realmente il modo più saggio di trascorrere l’ultima domenica a Belgrado.
La mia mente alienata, cullata dai cori e dai fumi della torciata dei tifosi plavo-beli (biancoblu), viaggia a ritroso e traccia un resoconto complessivo di quanto, nei mesi precedenti, ho potuto vedere con i miei occhi negli stadi principali di Serbia: gli impianti fatiscenti, la fila ai botteghini, i biglietti (rigorosamente senza nome) acquistati dai bagarini, un pubblico disaffezionato, costretto ad assistere a partite di un livello tecnico indecoroso a orari improbabili, di campionati tutt’altro che competitivi, con una prima divisione caratterizzata da un’alternanza al vertice tra le due maggiori squadre quasi mai scalfita, salvo rare eccezioni. Una malsana commistione tra investimenti pubblici, corruzione e sport, continua a condannare il movimento calcistico serbo a perire nella nostalgia di qualche trionfo passato.
La Plava Unija, però, si diverte sulle note di “Se sei felice e tu lo sai”, riportandomi al presente. Canticchio il Kad si srećan vikni glasno samo OFK insieme a loro, e in un attimo svanisce ogni mio dubbio sul perché queste persone, seppur poche, siano qui al gelo.
La nostalgia è, per questa gente, contemporaneamente condanna e rimedio a una realtà scadente. Tutto a Karaburma è fermo a i primi anni ‘60, anche la polvere sui seggiolini semidistrutti. È come se quel palazzone di cemento a vista in via Mije Kovacević 9 sia ancora in costruzione, e l’OFK stia vivendo la sua epoca d’oro dominando il campionato jugoslavo, giocando in una maniera talmente armoniosa da guadagnarsi il soprannome di Romantičari (Romantici), da cui l’omonimo ristorante che ti accoglie all’ingresso dello stadio.
Nella tribuna est, di fianco a un murales che testimonia il gemellaggio tra i tifosi biancoblu e i russi della Dinamo Mosca, nel quale due uomini si scambiano una stretta di mano con l’avambraccio destro senza lasciare spazio a interpretazioni politiche, vi sono due scritte che ricordano la vittoria dei cinque campionati jugoslavi e delle quattro coppe nazionali. Sulle gloriose notti europee contro Juve, Galatasaray e Tottenham potrebbe invece raccontarci qualcosa di più interessante “Čika Cvele” (Zio Cvele), Cvetko Jovanović, storico tifoso dell’OFK scomparso nel 2020, al cui rapporto viscerale con il quartiere e con la squadra è stato reso omaggio con un disegno che lo ritrae, sciarpa al collo e gambe accavallate, accompagnato dalla frase con la quale era solito rispondere in ogni circostanza: “Ipak smo mi OFK Beograd” (Dopo tutto siamo l’OFK Belgrado).
In città, però, c’è chi è stanco di vivere nel passato, chi non accetta che il proprio stadio diventi un pezzo d’antiquariato in decadenza, e per cercare di cambiare lo stato delle cose sta rinunciando, dolorosamente, alla propria tradizione. La prima volta che metto piede allo Stadion JNA, in un mite pomeriggio di inizio ottobre, il Partizan affronta il Mladost Lučani, e in dignitoso ritardo mi avvio verso il botteghino per acquistare il biglietto. Data la fila e il poco tempo a disposizione, opto per la tribuna Ovest acquistandolo da un bagarino a 800 dinari.
Tanti murales del CSKA Mosca mi accompagnano verso l’ingresso, assieme al ritratto dell’intera squadra di basket campione d’Europa nel ‘92 realizzato dai GTR (Grobarski Trash Romantizam), e al celebre Parni Valjak, il rullo compressore, soprannome nato da un di titolo di giornale apparso il giorno dopo una roboante vittoria del Partizan, per 7-1, in un derby nel ‘53. Superati i controlli, però, so bene che mi attende una Jug (Sud) letteralmente deserta. Nella tribuna sud campeggia, in cirillico, la scritta Uprava Napolje.
Ormai dalla scorsa estate, la parte più calda del tifo Partizan diserta ogni partita casalinga, perché in lotta contro l’attuale amministrazione del club, di cui chiede a gran voce le dimissioni. “Uprava Napolje” è anche il primo coro che si alza in un silenzio insolito tra le due tribune. Le ragioni della protesta sono state spiegate dai Grobari in un comunicato estremamente dettagliato, in cui le responsabilità principali della condizione finanziaria in cui versa la sezione calcistica del club venivano addossate a Miloš Vazura, direttore generale.
Sin dal 2014, si legge nel comunicato, quando il presidente della Serbia scelse di affidare l’amministrazione di un’istituzione come il Partizan a una persona inadatta e poco competente, nessuna delle promesse fatte dai dirigenti ai tifosi è stata rispettata.
Tra i vari punti su cui verte la protesta vi è, innanzitutto, l’indebitamento del club che, lungi dal diminuire, dal 2014 ad oggi è passato da 13.8 milioni a 31 milioni di euro, con un tasso di crescita costante. Gli unici investimenti nel club vengono fatti da uno Stato che, come si afferma nel comunicato, non ha particolarmente a cuore il destino del Partizan.
Per comprendere al meglio quest’ultimo punto, consiglio di mettere piede allo stadio, o alla Stark Arena, durante le partite dei bianconeri. Uscirete nauseati sia dal coro riferito al direttore generale “Puši kurac Vazura" (vi invitiamo a cercare la traduzione, perché nonostante tutto ci sforziamo di essere una rivista rispettabile), sia da quello che mette in dubbio l’orientamento sessuale del presidente del paese.
Dopodiché, in un cinico paragone con l’Omladisnki Stadion, viene affrontata anche la questione stadio. L’impianto, tornato ad essere di proprietà del Partizan dopo oltre 23 anni di gestione statale, sta cadendo a pezzi. Ogni miglioramento strutturale annunciato dalla società è rimasto solo una voce che grava ulteriormente su un bilancio già disastroso, partendo dai lavori ai tornelli sino al fantomatico sistema di tubi sotterranei per riscaldare il campo. A tutto ciò va aggiunto un settore marketing nel quale, come sottolinea il comunicato, sono impiegate ben cinque persone, e nonostante ciò risulta completamente assente, con dei negozi di merchandising che sono “la vergogna di ogni tifoso bianconero”.
Infine, c’è spazio anche per una critica alla gestione fallimentare del settore giovanile, alla totale deriva e incapace di generare nuovi talenti che, anche se venissero generati, sarebbero ugualmente svenduti a poco prezzo.
Durante la mia permanenza a Belgrado, mi abituo quindi a un JNA silenzioso ad ogni partita casalinga di campionato, unica competizione da giocare assieme alla coppa nazionale, dopo la rovinosa sconfitta contro i norvegesi del Nordsjaelland ai playoff di Conference League. La débâcle europea fu l’istantanea più nitida di un periodo buio, che molti avevano già scelto di affrontare con l’assenza forzata, affinché la propria passione non morisse in un passato senza vie d’uscita.
La mia comprensione, però, va anche a coloro hanno scelto di continuare a popolare le due tribune, senza riuscire a star lontano dal Partizan, un po’ come se fossero tutti Miroslav Gaijić, alias Miša Tumbas, uno storico tifoso, con numerosi problemi di salute ed economici, che non mancava ad alcun appuntamento sportivo del mondo bianconero, e alla cui memoria sono dedicati svariati murales in giro per la capitale. In un derby di basket del 2015, si denudò durante il riscaldamento di fronte ai tifosi della Stella Rossa, con il suo tormentone “Jebace vas Miša Tumbas” (di nuovo ci riserviamo di non tradurre).
Animati forse dalla sensazione che la frase tormentone potesse tramutarsi in realtà, il numero di spettatori cresceva comunque di giornata in giornata, mentre il Partizan consolidava un primo posto in classifica, per il quale è ancora in corsa, ai danni dei rivali di sempre. Alla fine il campionato non sarà competitivo e stimolante, ma la Crvena Zvezda (Stella Rossa), che era impegnata nei gironi di Champions League, stava continuando a fare passi falsi, e il derby rimane eterno.
A uno dei passi falsi ho assistito in diretta dalla Sever, la curva Nord del Marakana, nel primo mercoledì di novembre. I padroni di casa affrontavano il Bačka Topola in un Rajko Mitić senza il pubblico delle grandi occasioni. Certo, l’orario e il giorno infrasettimanale non lasciavano presagire altro, ma avverto una preoccupante mancanza di entusiasmo.
Dimenticate ogni narrazione romantica del tifo serbo, la noncuranza di chi è a capo del movimento verso il livello qualitativo del campionato non può che provocare disaffezione. I Delije fanno sentire comunque la propria voce, in maniera incessante, per novanta minuti, accompagnandola con la solita torciata. Succede tutto nel finale, quando la Zvezda sblocca la partita con Katai, per poi essere raggiunta dagli ospiti a tempo scaduto, forse al loro primo tiro verso la porta.
Vedo l’altra faccia della medaglia solamente un mese più tardi. La Stella, ultima nel girone e già eliminata da ogni competizione europea, affronta il Manchester City campione d’Europa in carica. Poco importa se non c’è nulla in palio, il Marakana è strapieno e vestito a festa. La scenografia coinvolge tutto lo stadio e prende spunto dai disegni che colorano il tunnel d’ingresso verso il campo. La partita la dominano quelli vestiti di celeste, come previsto, salvo un paio di sussulti biancorossi nel finale. Ma alla fine cosa importa del risultato, quella era l’ennesima occasione per morire di nostalgia, un copione già scritto.
Dopo una splendida sciarpata, ecco infatti che la Sever espone lo striscione “When football wasn’t about money, World Champion 1991”, ricordando la Coppa dei Campioni vinta a Bari. Tutto come previsto, rispolverare i fasti di un passato glorioso, facendo finta che una qualificazione in Champions League copra un debito di cui nessuno conosce la cifra, o il fatto che da ormai cinque anni il club non venda alcun giocatore nei maggiori campionati europei, continuando a comprare giocatori di poca qualità senza puntare su un vivaio incapace di crescere nuovi talenti.
I problemi strutturali del calcio serbo sono innegabili, ma non è certo colpa dei tifosi se il loro unico rimedio è vivere nel passato. Condivido anche la loro diffidenza verso il futuro, a maggior ragione se questo futuro è fatto a immagine e somiglianza dei tifosi arrivati da Manchester rimasti in un silenzio imbarazzante per tutta la partita. Gli inglesi, in silenzio, in trasferta, a Belgrado. Per l’amor di Dio, fra qualche anno riuscirete anche a fargli fare la Ola.
Ho realizzato presto che il malessere provato nel gelo dell’Omladinski altro non era che imminente nostalgia verso quel barlume di umanità, fatta di errori e imprecisioni, che gli stadi di Serbia erano riusciti a regalarmi. Di nostalgia non si muore, e ognuno sceglie il suo modo di assicurarsi l’immortalità.
Un reportage di Lorenzo Serafinelli, autore anche di tutte le foto e i video presenti nell’articolo