📺 Del VAR o della 'Sindrome di Stendhal'
✉️ Oggi parliamo del dominio della tecnica sull'uomo (anche nel calcio), scambiamo due chiacchiere con Marcello Lippi e torniamo a parlare di Arabia Saudita, da una prospettiva politica e religiosa.
Naturalmente dalla sera del 22 giugno in poi non si è fatto che parlare del doppio (triplo?) scandalo arbitrale nel match d'esordio agli Europei U21 degli azzurrini di Nicolato contro la più quotata – ma non troppo superiore, almeno nei fatti – Francia di Ripoll. Il ct azzurro al termine della sfida ha detto che «è incredibile giocare senza il supporto della tecnologia», e noi siamo d'accordo con lui, soprattutto se lo stesso VAR è ormai parte integrante delle nostre vite calcistiche (e infatti l’UEFA ne ha annunciato l’adozione a partire dai quarti di finali: uhm).
Fantastico quindi, ma qui c'è comunque qualcosa che non quadra. Prendete i fatti e poi studiate le reazioni - pure le vostre magari. Perché nessuno ha parlato dell'arbitro e chiunque, al contrario, ha parlato di (mancanza inammissibile di) 'tecnologia'? Sapete, c'è un essere umano che ha arbitrato la partita e si chiama Lindhout. Ha sbagliato, in maniera gravissima, perché è umano. Ma forse non solo per questo. Forse, inebetito come ormai la gran parte della classe arbitrale dinnanzi all'assenza del dio apofatico VAR – e della sua più giusta consorella Goal-Line Technology –, non ha avuto proprio la forza di decidere alcunché. La tecnica ha quindi ormai completamente soppiantato l'umano, che ha cessato da un bel po' di essere umano.
Prendiamocela quindi con la mancanza della tecnologia agli Europei, certo. È tutto giusto e legittimo. Ma interroghiamoci anche sugli effetti che la tecnologia ha instillato nei nostri spiriti, ormai niente più che automi. Interroghiamoci sull'incapacità pratica (siamo tutti disprattici; no, correttore di Google, non è un errore, si dice proprio così) e teoretica (siamo incapaci di formulare discorsi leggermente più articolati) che ormai ci accomuna tutti. Dai banchi di scuola e dai luoghi di lavoro ai rettangoli verdi in giro per il mondo.
Marcello Lippi, il segreto è parlare poco
«Io sono sempre stato convinto che prima di insegnare la tattica, l’organizzazione di gioco, bisogna trasmettere determinati principi umani e psicologici. Sono sempre stato di quest’opinione. Non può basarsi tutto solo ed esclusivamente sulla tattica e l’ordine in campo».
Così ci ha parlato Marcello Lippi, che poi alla nostra domanda su cosa avesse detto nello spogliatoio prima della finale del 2006 ha risposto: «Cosa si dice prima delle finali non conta nulla secondo me. Ripeto, il segreto è parlare poco». Soprattutto in certe occasioni. Ma con Lippi abbiamo parlato di molto altro: della sua giovinezza, della Versilia, degli esordi; della Juventus e della scuola italiana (che cambia), di politica e di religione. Lasciandolo infine al suo amato mare: «Non vi nego però che la cosa che mi piace di più, di questa stagione, è vedere i bambini giocare in spiaggia e per strada».
Un’intervista di M. Freda.
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Il bambino è cresciuto 🐐
Il bambino è cresciuto. Era già adulto, poiché costretto ad esserlo. Vincendo il Mondiale, è diventato uomo. Ma in lui è rimasto il tocco fanciullesco, la leggerezza di chi gioca tanto meglio al calcio quanto più lo ama. Non si è mai trattato, con Messi, di raggiungere un traguardo. L'imposizione statistica, che ha reso grandi – certo, mai al suo livello – altri suoi contemporanei, per Messi non è mai stata posta come 'prova ontologica dell'esistenza del GOAT'. Non era necessario. Che Messi sia il più grande di ogni tempo non lo dice la storia, lo dice ciò che in lui si è rivelato: non un 'altro' modo di intendere il calcio (Maradona), né di giocarlo al massimo delle potenzialità (Cristiano Ronaldo), e neanche di crearlo da zero (Pelé), ma di dominarlo con la bellezza. Il gioco di Lionel Messi è bello.
Le sue movenze non sono studiate, ma istintive. Il suo tocco di palla non ripete, ma crea ogni volta. Le sue sterzate sono inimitabili, la sua visione di gioco è profetica. Tutto questo, però, non è ancora sufficiente. Perché Messi, tutto questo e tutto il resto – irriducibile alle parole – lo ha fatto per anni, magari reinventandosi col passare del tempo – costretto anche lui dalle necessità fisiche di essere umano. Ma non ha mai davvero cessato di essere il migliore. Ad oggi, che ha compiuto (ieri) 36 anni e si è ormai definitivamente allontanato dal calcio che conta, non sapremmo dirvi chi lo supera. Nessuno supera Lionel Messi. Nemmeno l'incedere delle stagioni può.
Gli arabi possono comprare tutto, ma non la passione dei tifosi
Quando al calar del sole accenderai il cellulare, volando su Twitter o chissà dove per spulciare le ultime scintillanti notizie di mercato, ricordati: il tuo campione, il tuo prediletto beniamino potrà pure essere volato in Arabia Saudita a suon di trilioni, ma tu non tifi l’individuo. Non tifi il calciatore, né il calcio: tu tifi per quella comunità che ha dato un senso a questo sport. Meglio ancora, TU SEI questa comunità. Tirati su, togli di mezzo lo schermo e tieni sempre dritta la schiena. Tante battaglie di attendono, e come le mille che le hanno precedute, nessuno ti pagherà per farlo. Loro guadagnano senza soffrire, noi soffriamo senza guadagnare. Gli arabi possono comprare tutto, ma non la passione di noi tifosi.