🟢 Contrasti ULTRA #0
Oggi parliamo di Mancini e dell'Arabia Saudita che vuole entrare nel calcio europeo, di Rubiales e del pensiero unico, dei recuperi gonfiati, di atletica e della mentalità dei tifosi milanisti.
Da Mancini a Rubiales, il silenzio è oro
Oh, che piacere ritrovarci. So che sono diventato un contenuto riservato agli abbonati, e questo a dirla tutta mi riempie d’orgoglio – soprattutto perché gli analfabeti (dis)funzionali dei social non leggeranno mai più questa rubrica, e la cosa non può che aiutare anche legalmente, garantisce il direttore di Contrasti. Ciò detto nell’ultima settimana ho capito una cosa importante, ovvero che siamo entrati ufficialmente nell’epoca della post-verità.
Come spiegare altrimenti che Maurizio Molinari, il direttore di Repubblica, avete presente quell’ometto con la erre moscia, senza spalle e con i capelli da pretino, Maurizio Molinari dai che se poi vedete una foto (vi auguro comunque di no) dite “aahh lui, sisi, mamma mia ahah”, ebbene proprio lui ha ricevuto un premio contro le fake news in quanto “direttore di un quotidiano rispettoso del valore della notizia e delle aspettative dei suoi fruitori”. La Repubblica, questo. Sarebbe un po’ come dare a Nicolò Zaniolo il Nobel per la letteratura, anzi peggio perché già Zaniolo fatica a leggere, figuriamoci a scrivere. Cosa che invece Molinari, purtroppo, fa eccome.
Tutto ciò per dire cosa però? Che qualsiasi concetto espresso qui potrà essere vero, falso, inventato o reale, non è mica la verità (ufficiale, quella di Molinari & friends) ad essere un criterio. Che ce ne facciamo della verità? Perché la non verità piuttosto?, come diceva quel dinamitardo di Nietzsche. Che poi a volte è la verità stessa ad assumere forme e tratti grotteschi, deformanti, quasi surreali. Come nella settimana appena trascorsa, con i casi di Roberto d’Arabia e gli strascichi dell’affaire Rubiales a tenere banco. Situazioni per le quali ci sarebbe stata una sola e sana costante: il silenzio. E invece…
A proposito del povero (ma ricchissimo) Roberto Mancini ad esempio, testimonial di tutto il testimoniabile, volto dei volti con quel suo sorriso magico, principale esponente della lotta alle droghe in questo disgraziato Paese, che quasi mi ispira umana pietas per tutti gli attacchi ricevuti: ebbene non voglio qui unirmi alla pubblica gogna riservatagli dal 90% degli italiani ma concentrarmi su una cosa, la lettera che ha poi scritto per ‘spiegarsi’.
Ma perché, Roberto? Una delle lettere più insulse, ignave e vuote che abbia mai letto, in cui sembra che Roby si rivolga alla ex e agli amici di lei per difendere la propria reputazione e dire che no, lui non ha lasciato per questa nuova destabilizzante diciottenne che ha conosciuto solo dopo, quando “già era mancata la fiducia, e senza fiducia non si può andare avanti”, ma in cui cita anche i poemi antichi, gli Dèi, le fake news (pure lui), nella quale si lascia andare alla retorica nostalgico-populista per cui «il calcio è sempre stato tutto per me, fin da quando ero poco più di un bambino, nei campi sterrati, a tredici anni, sempre e solo a sfidare un pallone» – e quindi? Roberto, ma almeno te le scrivi da solo queste cose o paghi anche qualcuno per farlo? Perché nel caso io mi propongo, in vendita e pure a prezzo di saldo per l’Arabia, faro di civiltà e luogo di tradizione calcistica in cui c’è così tanto da selezionare tra materiale tecnico e umano.
Peggio ancora, però, ha fatto Rubiales, sul cui caso ci siamo dovuti sorbire uno stucchevole dibattito che ha superato persino quello sul libro del generale Vannacci. Giorni interi tra appelli, smentite, versioni concordate e poi disattese, con un caso che è diventato politico nel senso che ha fatto discutere anche quei politici degli influencer, quegli influencer dei politici (ministri, parlamentari, addirittura in Spagna gli ex candidati premier, ancora in attesa di formare un governo ma impegnati a parlare di Rubiales e Jenni Hermoso) e con essi tutta la società, ridotta ormai a una gigantesca tendenza Twitter, anzi X – meglio, più impersonale – laddove più i temi sono idioti e imbarazzanti più monopolizzano il dibattito.
Così, come scrive il Corriere della Sera, «La Spagna si è fermata per sostenerla. Sono in centinaia a dire ‘Sono anche io Jenni Hermoso’. Sugli spalti degli stadi, per le strade», mentre la madre di Rubiales si è chiusa in un convento minacciando lo sciopero della fame notte e giorno in difesa del figlio e tutto l’arco (parlamentare e non) si è dovuto schierare, dall’estrema sinistra all’estrema destra. Come diceva un caro amico, d’altronde, la Spagna è l’Italia ritardata, ma non credo che noi ormai siamo messi molto meglio.
In questo caso però facciamo i seri, vi prego. Non si può semplicemente dire che chi ha un ruolo del genere, con tutto il bene, non può baciare in mondovisione una calciatrice e comportarsi in quel modo? Ma che scena orrida è stata tra l’altro? Già è repellente quando un genitore bacia in bocca il figlio – perché lo fate? –, figuratevi questa roba in cui lui le salta addosso, la tocca, questo sudato padre di famiglia senza capelli, e poi, super appassionato con quel suo fare un po’ dinoccolato e scimmiesco, la bacia in un “impeto di euforia”. Ma dai, ma veramente dite?
Così, invece di nascondersi per un po’, andarci lui in convento anziché la madre, Rubiales ha preferito tirare fuori la persecuzione politica, lo “omicidio sociale” commesso ai suoi danni, e ha messo in mezzo “il falso femminismo, che è un grande flagello in questo Paese”, come se fosse il leader di Vox e non della Federcalcio spagnola. Premettendo che apprezzo le femministe quanto la sabbia nelle mutande o quanto una conferenza stampa di Pep Guardiola, ma caro Luis Rubiales: che diavolo stai dicendo?
Il punto non sono la “posizione di dominio”, la legge «solo sí es sí», voluta dal ministero dell’Uguaglianza spagnolo (sic!) e tutte quelle fregnacce con cui ci ammorbano le associazioni fucsia, le Boldrini e i Fratoianni del mondo. Semplicemente un personaggio pubblico a quel livello non fa certe cose, non ne dice altre. Stop, fine del (patetico) dibattito. Ché certi ruoli sono fatti anche di immagine, di forme e di modi. Sarebbe come se un politico sventolasse in parlamento una fetta di mortadella, tanto per dire. Insomma, un bel tacer non fu mai scritto, direbbe la saggezza popolare. Ma anche un discreto comportarsi aiuterebbe. Almeno Mancini con la sua scelta saudita ha messo in banca figli, nipoti e pronipoti, e soprattutto non c’è pericolo che in Arabia venga messo in croce dalle associazioni dei diritti civili e di genere – alla fine, lo sapete che forse forse quest’Arabia…
Scherzi a parte, necessari per rimanere vivi nell’epoca della verità dei Luis Rubiales, Roberto Mancini e Maurizio Molinari, il fatto è che parliamo di personaggi che farebbero pure ridere in un teatr(in)o del grottesco, in un’etica che nemmeno riesce più ad essere etichetta. Volevo finire con un paradosso, ma sono già stati troppo bravi loro. Un unico suggerimento, forse: avrebbero dovuto scambiarsi di ruolo i nostri eroi. Rubiales in Arabia, che guai a chi avesse provato a dire e scrivere qualcosa per un innocente bacio; e Mancini contro le femministe, così a caso, e contro la persecuzione politica nei suoi confronti – addirittura il sindaco PD di Pesaro Urbino ha proposto di revocargli il ruolo da testimonial della Regione Marche. Molinari, poi, che si scambia con Molinari: tanto 0x0 fa pur sempre zero, ci insegnavamo alle elementari, e verità per verità?
🕋 Ceferin: l’Arabia Saudita non è un problema
A Roma c’è un detto che qui non possiamo ripetere ma che sarebbe perfetto per descrivere il “tranquillo” Ceferin. In una lunga intervista all’Equipe, il massimo organo dell’UEFA è tornato a parlare dell’Arabia Saudita, la cui lega calcistica si era detto fosse seriamente intenzionata ad entrare nella prossima Champions League.
«L’Arabia Saudita non è un problema. Pensano che acquistando giocatori forti a fine carriera possano migliorare il loro calcio, si sbagliano e lo abbiamo visto pochi anni fa con la Cina». Non sono solo parole di un folle, queste, ma anche di un incompetente. Dire che giocatori come Savic, Neves, Neymar, Bounou, Malcolm, Gabri Veiga etc., siano giocatori “a fine carriera” indica ciò che in termini psicologici si chiamerebbe disturbo dissociativo dell’identità. Ceferin davvero non sa di cosa parla, e cosa più grave lo fa con un’arroganza sintomo di un’enorme insicurezza. Paragonare l’Arabia Saudita alla Cina, davvero siamo ancora a questo punto?
«I migliori, come Haaland e Mbappé, non sognano l’Arabia ma vogliono restare qui, in Europa»: per ora, parrebbe di sì. Ma cosa dire dei Ronaldo, dei Benzema, dei Mané? Infine, sulla questione ‘Wild Card’ per accedere alla competizioni europee, Ceferin ha detto: «Questo è un argomento che interessa soprattutto i media, non tanto la comunità calcistica europea. Solo i club europei possono partecipare alla Champions League, all’Europa League o all’Europa Conference League; solo le Federazioni europee possono candidarsi per ospitare una finale. Dovremmo cambiare tutte le nostre regole e non abbiamo intenzione di farlo». Quel condizionale, quel maledetto condizionale.
Sempre a proposito di Arabia Felix, pochi giorni prima in un’intervista uscita su Kicker, Ralf Ragnick – commissario tecnico dell’Austria – aveva puntato il dito vero l’Europa borbottona e moralista, che si permette di accusare i sauditi e chi accetta di giocare per loro dietro lauti compensi. Nonostante Ragnick «non consigl[i] a nessuno di andarci», pensa al contempo che «prima di fare la morale, tutti dovrebbero chiedersi: cosa farei se fossi in questa posizione?».
Quando si tratta di diritti umani, infatti, i fiumi d’inchiostro si sprecano alla rincorsa di chi dice la cosa più banale e scontata. «Anche prima della guerra c’erano giocatori in Ucraina che accettavano volentieri denaro dalla Russia. E una volta c’era anche la Cina: non esattamente un paese democratico». Ha concluso Ragnick, per un giorno scudiero del buon senso, che non si può dire ai calciatori di «non andarci», perché molti di loro «con quei soldi possono sostentare il paese d’origine, aiutare ancora di più i propri familiari, sostenere chi ha fatto tanti sacrifici per farli arrivare a questi livelli». Si parlava di scambi di ruolo, poco fa, nevvero? Ecco, Ragnick per Ceferin e siamo tranquilli.
🦗 Verremo spazzati via dalle masse
Il caso Rubiales ha paralizzato letteralmente l’opinione pubblica spagnola. I giorni trascorsi dal ‘fattaccio’ hanno prepotentemente portato alla luce della stampa il tema dibattuto e caldo del patriarcato e delle sue forme di violenza. Chiaramente la vicenda ha ispirato le penne dei maggiori opinionisti del paese. Andoni Zubizarreta sul País si è chiesto “a cosa serve il calcio?”. Una domanda cui ha fatto seguito Galder Reguera su As, il quale ne ha sottolineato le qualità di amplificatore sociale. Le parole però più interessanti arrivano dalla Catalogna, e non potrebbe essere diversamente. Nella redazione del Mundo Deportivo, il quotidiano sportivo più antico del Paese, si fa ancora giornalismo e sul caso Rubiales le parole di Pitu Abril sono un manifesto editoriale della contemporaneità che dovrebbe essere letto e riletto:
“L'immagine del bacio del presidente della RFEF, Luis Rubiales, alla giocatrice Jennifer Hermoso, è degna di studio nelle facoltà di giornalismo. Questa immagine è stata ripetuta fino alla nausea su tutte le televisioni, ma la cosa perversa è che l'immagine si ferma nel momento del contatto labiale tra Rubiales e Jenni, una pausa che logicamente non c'è stata ma che, intenzionalmente o meno, erotizza la scena”.
Continua: “Un’altra immagine demonizza il presunto cattivo del film. Questa è la 'cornice' scelta per illustrare il set in cui si vede un Rubiales con la faccia di chi ha assassinato un gruppo di vecchie signore. Sentenza emessa. Rubiales è già stato condannato dai media, dai politici e dagli opinion maker. Anche dalla FIFA che, in omaggio all'ipocrisia, ha deciso di sospendere Rubiales. Nel caso qualcuno lo avesse dimenticato, la FIFA è l'organismo che ha organizzato una Coppa del Mondo in un paese dove i diritti umani non sono rispettati, tanto meno quelli delle donne. A me, quello che è già noto come il ‘caso Rubiales’ comincia a ricordarmi per certi aspetti il ‘caso Vinicius’. Chiunque non abbia mostrato la propria simpatia verso questo giocatore tanto buono quanto ribelle è stato bollato come razzista.
Adesso chi non si pronuncia contro Rubiales entra nella lista dei macho-colpevoli (senza presupposti). Xavi è stato accusato del fatto che i suoi giocatori non avevano parlato. Sui social hanno 'ucciso' Luis Enrique per non essersi unito al carrozzone del politicamente corretto, e anche Rafa Nadal per non aver detto nulla sull’argomento. La paranoia è arrivata a un punto tale che sono pronti a licenziare un allenatore che ha appena vinto un Mondiale per aver applaudito. Temo che verremo spazzati via dalle masse. Ho paura dei linciaggi. Sono preoccupato per la derisione subita dalla madre di Luis Rubiales. Mi preoccupa il circo mediatico che banalizza tutto (“fermiamo lo sciopero della fame delle mamme e andiamo adesso a 'la tomatina' a Buñol….”). Ma soprattutto mi preoccupa che si perda lo spirito critico. Il giornalista ha l’obbligo di mettere tutto in discussione, di mettere in discussione tutto, di non credere a nulla senza aver prima ascoltato tutti i protagonisti e aver consultato tutte le fonti. Alla Columbia University, negli Stati Uniti, quando entri nella Facoltà di Giornalismo trovi sulla porta un cartello con questo motto: Se tua madre ti dice che ti ama, vai a controllare”. Amen, aggiungiamo noi.
😷 Henry: il Covid ha cambiato tutto, i giovani calciatori sono molto più vulnerabili di quanto lo fossimo noi
Sul quotidiano francese SoFoot sono apparse alcune interessanti dichiarazioni di Thierry Henry, nuovo selezionatore dell’Under21 bleus. L’ex leggenda dell’Arsenal ha parlato dei problemi psicologici che affliggono i giovani calciatori oggi, soprattutto dopo la pandemia esplosa tre anni fa: «Il periodo del Covid mi ha cambiato molto, e ha cambiato la mia percezione nei confronti dei (giovani) calciatori. Ho appreso come anche nel calcio non si possa sottovalutare l’empatia. Quando giocavo io, si entrava in campo per uccidere l’avversario. Questa retorica oggi non è più ammissibile. Ti devi mostrare vulnerabile, comprensivo, abbracciare e discutere è più importante di spiegare e comandare. Soprattutto coi più giovani».
⛑️ Boban: i recuperi gonfiati fanno male al calcio (e ai calciatori)
Zvonimir Boban, Chief of Football dell’UEFA, ha usato parole molto dure contro i recuperi gonfiati adottati da alcuni campionati, in particolare in Premier League. Il massimo campionato inglese ha adottato immediatamente la direttiva emessa dall’International Football Association Board (IFAB) volta a ridurre le perdite di tempo. Come abbiamo visto in questo avvio di stagione, alcune partite di Premier hanno superato i 100 minuti e alcuni calciatori, tra cui Kevin De Bruyne (che ha definito la regola disumana), hanno già protestato per questo.
Boban ha preso una posizione contro tale pratica considerandola assurda e priva di ogni logicità: “Per quanto riguarda il benessere dei giocatori, è una sorta di piccola tragedia in quanto stiamo aggiungendo un extra time pari quasi a metà di un tempo di gioco. Per quale motivo avviene tutto questo? Noi [il mondo del calcio] non stiamo ascoltando giocatori e allenatori. Questa moda di dare cosi tanto recupero a fine stagione peserà non poco. Continuando così saranno circa 500 minuti in più a stagione. È pazzesco. È troppo, quindi non lo faremo. Seguiremo le nostre linee guida.”
Il capo degli arbitri dell'UEFA, Roberto Rosetti, ha sottolineato che nelle partite di Champions League il tempo di gioco effettivo era più elevato rispetto ad altri campionati europei. Il tempo medio è stato di 60,07 minuti in Champions League, mentre in Premier League era pari a 54,46 minuti. “Abbiamo iniziato a lavorare su questo più di cinque anni fa”, ha detto Rosetti. “C'è qualcosa di più importante dell'accuratezza del tempo aggiuntivo. Perché alla gente piace così tanto la Champions League? Perché è intensa, è fantastica, i giocatori non si fermano mai. Diremo ai nostri arbitri di accelerare la ripresa del gioco invece di concentrarsi sul recupero da concedere.”
⚽ L’attaccante più prolifico al mondo fa sognare la Fluminense
Mentre in Europa sono appena stati sorteggiati i gironi di Champions League, in America Latina la Copa Libertadores è entrata nel vivo. Assolute protagoniste sono le squadre brasiliane, che rappresentano tre delle quattro semifinaliste dell’edizione 2023. Un dominio nel subcontinente che dura da un lustro e non sembra volersi arrestare. In mezzo, manco a dirlo, il solito Boca Juniors ancora a caccia della Septima per raggiungere finalmente l’Indipendente come leader di vittorie della competizione.
Gli Xeneizes arrivano da una marcia per nulla esaltante, e nonostante l’arrivo di Cavani hanno persino stabilito un record di mediocrità: nessuno era arrivato alle semifinali di Libertadores senza aver vinto nemmeno una partita nella fase a eliminazione diretta. I rigori hanno definito le sfide contro Nacional e Racing Club, elevando Sergio Romero ad eroe de La Boca: “Prima ti dicono vamos Boca e subito dopo, ovviamente ti chiedono la Septima. È il sogno di tutti. Abbiamo battuto un rivale difficile, ora tocca a un altro avversario storico come il Palmeiras”. E certamente il Ciquito vorrebbe evitare gli ennesimi rigori, anche perché serve un Boca diverso per continuare a sognare.
Dall’altra parte del tabellone non si ferma la favola di Germán Cano, il bomber argentino che sta facendo la fortuna del Flu. Come ricorda Olé, l’attaccante trentacinquenne ha segnato 33 gol in 45 partite, con la doppietta di questa settimana contro l’Olimpia aveva staccato Haaland e Cuypers fermi a 31 (prima che il norvegese segnasse una tripletta ieri contro il Fulham). Sono poi 9 gol in altrettante partite di Libertadores, e addirittura 77 in 115 partite con la maglia tricolor. Una seconda giovinezza che non sembra aver turbato i pensieri di Scaloni, ma che fa sognare una finale al Maracanà di casa ai tifosi del Flu. I prossimi appuntamenti:
26/9: Boca vs Palmeiras
27/9: Fluminense vs Inter de Porto Alegre
3/10: Palmeiras vs Boca
4/10: Inter de Porto Alegre vs Fluminense
Si sono da poco conclusi i Mondiali di Atletica (Budapest 2023): chi meglio di Nicola Roggero, tra i massimi esperti in materia, per analizzare le gesta degli sportivi che vi hanno partecipato?
Da Tamberi, “atleta mondiale” che “ha ricordato Usain Bolt” per la partecipazione pressoché totale del pubblico alle sue imprese, a Tortu e Jacobs, campioni tra i campioni. Ma in questa pillola Roggero non si è limitato al commento sui ‘nostri’ atleti, anzi: ha sfruttato l’esito del medagliere finale per aprire un più ampio (e interessantissimo) discorso sull’atletica in quanto sport universale.
Nicola Roggero ha scritto per «La Voce», il «Corriere della Sera» e «Tuttosport», prima di approdare alla TV. Dal 2003 è telecronista a Sky Sport. Come inviato ha seguito i principali avvenimenti sportivi, Olimpiadi, campionati mondiali ed europei di calcio e di atletica leggera. Ha pubblicato diversi libri tra cui ‘Premier League’ uscito per Rizzoli nel 2019. La sua ultima pubblicazione è ‘Storie di atletica e del XX secolo’ (add Editore, 2023).
Chi è Gaetano Scirea, il libero che ha inventato il libero
Modestia e verecondia mi rendono caro Gaetano Scirea ed io provo davvero fatica a ripetermi e debbo ogni volta coniare un nuovo modo di raccontare il giocatore che ha inventato un ruolo e che testimonia positivamente classe e qualità di fondo del calciatore professionista. Più volte mi hanno parlato di Cernusco sul Naviglio ed il ruolo era, prima che arrivasse Scirea, assai discusso in chiave tecnica e tattica, suscitando molti dibattiti a livello giornalistico, in giorni in cui si credeva ancora nell’importanza dei fatti tecnici.
Aveva preso Scirea l’eredità di Salvadore, valore tecnico assoluto, ma prigioniero del suo egoismo virtuoso, chiuso in tutto nel reparto, buttando via la chiave nel senso che Salvadore fu il prototipo – uno degli ultimi - del calciatore rodomonte persuaso di testimoniare con il suo calcio il meglio della terra. Una concezione sbagliata del calcio ha sempre portato gli italiani, fin da età scolare, a dedicarsi al gioco così da avvolgersi in nuvole di dribbling. Per il difensore diventa un problema di calcio dato con maggiore o minore potenza; per l’attaccante di capacità di farne fuori più di tre, finalmente giunto in possesso della palla.
Mai che il ragazzino capisse di doversi invece disporre ad aiutare i compagni per aiutare se stesso. E così il ruolo di libero, a parte il caso isolato e rapsodico di Armando Picchi, fu un ruolo per campioni quasi in disarmo, dove testimoniare l’eccellenza di uno stile – vedi Salvadore appunto e più profondamente Cera- ma non quello che dovrebbe essere alla base del gioco, un concetto altruistico, uno spirito di collaborazione.
Poi arrivò Scirea.
Nasuto come Cirano o un po’ meno, in compenso senza golosità di nessun tipo, ragazzo semplice e però generoso, anche aperto con chi riuscisse a meritarsi la sua fiducia. Io ci ho messo tanti anni. E Scirea, appena un ’53, tre anni più di mio figlio e tanta gloria sulle spalle, finalmente è riuscito ad essere meno riservato, meno timido, meno occasionale, meno sommario con me. Mi rivede con piacere insomma. Saluta in me uno dei suoi cantori. Sa che gli debbo molto per le gioie calcistiche che mi ha donato, per l’esempio che sa darmi di professionalità e di appagamento; considero lui, sua moglie Scirea e il loro Riccardo, una perfetta famiglia italiana.
Un lettore un po’ cocciuto a veder nero dove io scrivo grigio, a negarmi ogni qualità, suppone che io esalti Scirea più di Passarella perché sarei juventino. Anche questa storia, che uggia, io non sono feudale, credo nella buona fede, scrivo di ogni squadra con lo stesso entusiasmo. E se scrivo che Graziani ha classe vengo insolentito da chi confonde stile con classe. Ora con Scirea molti confondono la sua modestia e verecondia per carattere troppo ligio, senza capire che Scirea è forte nel carattere come un vero guerriero, di quelli che in altre epoche illuminavano il volto del principe o del duca, Scirea è un calciatore di cappa e spada, la sua tecnica adamantina ne ha fatto un libero in grado di chiudere ma di più aprire, cioè aprire sbocchi alla manovra, inventare gioco, creare la sorpresa.
Mai un perditempo, ma un ruotare al servizio del gruppo, in Nazionale o in bianconero lo stesso irreprensibile campione col concetto del collettivo nel sangue. Certo, Scirea non è gigante e Righetti lo sopravanza sul piano fisico. Ma non si improvvisa nulla e Gaetano ce ne ha messo di tempo per arrivare. Mi rivedo con lui in Argentina, in quel ritiro tutto verde dove Bearzot preparò la sua prima grande squadra. Chi intervistava Scirea? Praticamente nessuno. Ed io cominciai a conoscerlo. Feci delle bellissime interviste perché Scirea, conoscerlo per credere, ha tutto per saperti fornire anche l’idea. È un parlatore acuto arguto. Ha tanta prudenza, vorrebbe mai dire più di quel che gli spetta.
Rispetta tutti nel desiderio di essere ugualmente rispettato. Ma come si rivoltò quella volta che un giornale gli fece un’intervista senza interpellarlo. “Ma come, non mi cercate mai, cercate sempre i soliti – disse a quel cronista turbato ed in procinto d’incavolarsi- e quando avete bisogno di me vi inventate l’intervista?”
Può succedere di tutto anche che Scirea si arrabbi, una volta o l’altra succederà. Intanto, la sua carriera si può riassumere con cifre davvero eminenti, sia a livello di campionato, che in campo internazionale.
Vediamole un po’ queste cifre, cerchiamo di vestire la loro aridità con la nostra fantasia. Scirea quasi trecento partite in A con venti gol. Scirea 62 volte azzurro. Scirea Campione del Mondo in Spagna. Mi diceva quel vulcano di Sebastiano Nela all’altezza di Dundee: “È fin troppo un bravo ragazzo. Io vorrei piuttosto giocare accanto ad un libero che mi sprona, che mi dà la carica”. E qui spiego a Nela perché diceva una cosa inesatta. La carica che dà Scirea è quella del gioco. Scirea gioca a calcio con l’esempio del piazzamento ed è sempre equidistante da tutto. Non smania ma puntella con la prontezza dell’intuizione. È il libero che ha inventato il ruolo di libero.
Prima del suo arrivo, avevamo avuto il libero difensivo estrinsecato in modo meraviglioso da quel grosso uomo, da quell’eroe, che fu Picchi. E c’era stata l’ex mezzala Pier Luigi Cera che da libero aveva testimoniato buonissime qualità tattiche. Ma ancora era mezzo ruolo, per ragioni storiche di necessità e perché il calcio nostro non si decideva a diventare adulto. L’arrivo di Scirea ha coinciso con mutamenti tattici sostanziali, fermo restando che le sue origini da mezz’ala, gli hanno consentito d’irrobustirsi a tutto campo, così da delinearsi fin dall’Argentina, come il libero più originale. Scirea è grande in ogni zona di campo. Sa difendere con la stessa naturalezza stilistica e di atteggiamento con cui costruisce. Per cui i suoi lanci sono da mezz’ala ed i suoi gol sono da attaccante. Nessuno come lui sa impostare da vicino e da lontano. Inventando il suo ruolo Scirea ha dato al calcio risvolti nuovi.
La Nazionale di Scirea in Argentina giocava a tutto campo in modo mirabile. E Scirea andava all’attacco sguinzagliando passaggi al bacio e tentando le conclusioni. Quanto ha fatto anche in Spagna, dove gli sforzi dei suoi compagni juventini sono stati giustamente premiati dal successo finale. E se Scirea da qualcuno non è stato capito non è proprio colpa sua. Gaetano Scirea fa di tutto per farsi capire. È la semplicità fatta uomo. Egli è professionista adamantino degno dell’uomo. I calciatori come lui arricchiscono un mestiere e testimoniano l’unica dote che fa grande chi la possiede: l’intelligenza del cuore, la bontà.
Un sindacato dei tifosi ancora non esiste – e il Codacons ha a che fare coi consumatori, di tutt’altra specie – ma la Curva Sud del Milan, ultimamente, ne ha preso le veci. Per chi ha la memoria corta, tutto è iniziato lo scorso anno (aprile del 2022) in occasione di Milan vs Fiorentina. Con i rossoneri a un passo da uno storico e insperato Scudetto, l’AC Milan aveva pensato bene di togliere più della metà dei biglietti ai tifosi viola, per regalare a Pioli e ai suoi ragazzi una cornice quasi interamente rossonera a San Siro. A poche ore dalla notizia, la Curva Sud si era mossa con un comunicato degno di questo nome:
“La gestione della vendita del settore ospiti per Milan-Fiorentina è solo l’ultima di una serie di episodi che in questa stagione hanno visto stadi in cui i biglietti degli ospiti sono stati venduti/comprati dai tifosi di casa. Chiediamo quindi all’AC Milan, da sempre attenta e sensibile alle legittime esigenze dei tifosi, di farsi portavoce di tutte le società per le trasferte, portando la questione sul tavolo dell’osservatorio e allo stesso tempo di trovare una soluzione immediata per porre rimedio a questa spiacevole situazione in vista di domenica, perché ci teniamo a dirlo chiaramente e fermamente:
per noi il settore ospiti è sacro ed è fondamentale in ogni stadio. Per noi è impensabile non avere a disposizione un settore dal quale sostenere il nostro Milan in trasferta. Uno stadio senza il settore ospiti, senza la tifoseria rivale o senza noi come tifoseria ospitata, è la cosa più lontana e inconcepibile dalla nostra idea di stadio e di calcio”.
Difficile comunicare meglio, e con più decisione, di così. Per giunta a difesa di una tifoseria avversaria, certo metonimia per tutte le tifoserie del mondo. In quel caso la società rossonera capì di aver sbagliato, e rimediò. Per Milan-Torino, giocata settimana scorsa, il caso non è paragonabile, ma certo analogo: il problema non riguarda il costo del biglietto di questa partita (appena 19€, più che onesto insomma), ma quello medio in tutta la Serie A. Così la Curva Sud Milano ha deciso di manifestare il proprio dissenso con uno striscione inequivocabile prima dell’inizio del match: «settore ospiti: fissare un tetto al prezzo del biglietto» (messaggio ripetuto venerdì sera all’Olimpico contro la Roma, foto sotto).
I dati pubblicati da un’inchiesta del Corriere dello Sport e ripresa sia da Calcio e Finanza che dalla nostra redazione, sono eloquenti e piuttosto inquietanti: in media, l’aumento sul prezzo dei biglietti è del 28%. Ci sono alcune eccezioni positive, come Empoli e Juventus – che ha fissato un tetto per tutte le trasferte – e anche la UEFA (competizione per competizione) ha annunciato l’obbligatorietà per le società di tutta Europa di adeguarsi al tetto stabilito.
In attesa di essere smentiti anche su questo versante – l’unico che metterebbe in buona luce una organizzazione che è evidentemente parte del problema qui accennato –, aspettiamo sfiduciosi un serio intervento degli organi federali della Lega Calcio per l’abbassamento sul prezzo dei biglietti delle partite di Serie A. Buon calcio a tutti.